Buddusò conta 3950 abitanti, sorge a 690 m sopra il livello del mare e ha una superficie territoriale 176,97 km². E’ circondato da sugherete, ed è famoso in tutto il mondo per il granito che costituisce una delle fonti importante  di reddito.
L’abitato conserva ancora integri gran parte dei caratteristici edifici ottocenteschi in granito, di semplice ed elegante disegno, che insieme alle strutture murarie in blocchi granitici a vista caratterizzano fortemente il paesaggio urbano.
Nelle piazze, nei giardini e lungo tutte le vie del paese le eleganti quinte stradali fanno da sfondo alle sculture in granito posizionate ovunque, e su alcune facciate si possono ammirare pregevoli murales.

Budduso, la storia

Il Villaggio di Buddusò


È storicamente accertato che l’origine del nostro centro risale al periodo medioevale. Si può immaginare che sia stato fondato da gruppi di abitanti delle coste del nord-est della Sardegna, costretti a lasciare le loro sedi  a causa delle frequenti incursioni dei navigli barbareschi, per rifugiarsi nelle zone montuose dell’interno. Nella prima metà dell’Ottocento, come dimostrato dalla pianta di Buddusò realizzata dal maggiore Carlo Decandia nel 1848, il centro storico conserva ancora il tessuto urbano originale.
Nella seconda metà del secolo, quando il paese conobbe  un’espansione del suo ciclo economico che interessò grandi e medi proprietari terrieri, sorsero sos palattos, i palazzi a più piani, costruiti con piccoli blocchi di granito a vista che ancora rendono caratteristica l’architettura del nostro centro.
Vittorio Angius, che nel 1833 visitò il villaggio, nella voce che ne scrisse nel Dizionario storico-geografico-economico degli Stati di S.M. Il Re di Sardegna pubblicato a Torino dall’abate Goffredo Casalis calcolava che il numero delle case era di 460, divise da varie strade irregolari.
Nel 1874-75, la pianta stessa del paese fu sconvolta dalla demolizione di tutte le case che si trovavano lungo la direttrice della strada nazionale 389 Correboi, Nuoro-Monti costruita in quel periodo, che attraversava tutto l’abitato. Enrico  Costa, nella sua relazione fatta al Consiglio comunale di Buddusò nel 1892, quando ricopriva l’incarico di Regio Commissario prefettizio del comune, parlava così dell’abitato: “Nella costruzione delle case si segue un sistema capriccioso, medioevale puro. Non si bada a estetica, ad allineamenti, a circolazione di maggior aria. Ognuno fabbrica come vuole e dove vuole”
.
Le famiglie povere vivevano in case formate di una sola stanza insieme alle galline ed al maiale. Non esistevano né una rete fognaria, né un cimitero; per l’approvvigionamento dell’acqua domestica, ci si serviva di sei pozzi dislocati in altrettanti quartieri; non c’erano né una piazza, né un caseggiato scolastico. Il primo edificio del municipio fu costruito nel 1873; in precedenza il Consiglio comunitativo si riuniva nella casa del Sindaco. All’interno dell’abitato esistevano quattro chiese: la parrocchiale dedicata a Sant’Anastasia, Santa Croce, quella del Rosario e San Quirico; fuori dell’abitato sorgevano le chiese di Santa Reparata, Sant’Ambrogio, San Sebastiano e quella diroccata di Santu Sisinni sita nella località omonima.
Angius descrive la parrocchiale come una “casa poco dicevole agli offici della religione”
. Agli inizi degli anni Trenta dell’Ottocento l’arciprete parroco teologo Antonio Thomas Campus di Pattada, già professore di Teologia morale nell’Università di Sassari, decise di restaurare la chiesa perché parte della navata centrale e le tre rispettive cappelle laterali minacciavano di crollare. Così il 7 luglio del 1832 stipulò un contratto con l’architetto genovese Marco Antonio Baffigo domiciliato a Tempio, e i muratori Pasquale Ornano e Giorgio Vernici, incaricati di demolire e riedificare le parti pericolanti della chiesa. Ultimato il rustico e constatato che la parte nuova non legava con la parte rimanente della vecchia chiesa si decise di demolire anche la parte vecchia che pure era rimasta in piedi, per avere un tempio completamente nuovo. La chiesa venne ultimata nel 1839: l’arciprete Campus non poté vedere ultimata la chiesa nuova perché morì nel mese di marzo del 1836. Prima dell’inizio dei lavori di costruzione del nuovo tempio i defunti venivano seppelliti all’interno dell’edificio e nel sagrato della parrocchiale. Dal 8 agosto 1832, probabilmente perchè occorreva lasciare completamente libero il cantiere della parrocchiale, si iniziò a seppellire i morti nella chiesa Seicentesca di San Sebastiano. Il primo defunto ad esservi inumato fu Giovanna Antonia Forroja.
Sappiamo che nel 1852 venne restaurata la chiesa di San Quirico, ma non sappiamo quali siano le parti oggetto del restauro.
Dal quadro d’unione del territorio di Buddusò, con le relative strade, realizzato dal maggiore Decandia si deduce che il villaggio era collegato con tutte le comunità limitrofe. Nel 1890 il Comune istituiva un servizio trisettimanale di trasporto pubblico per passeggeri da Buddusò ad Ozieri e ritorno che passava anche per  Pattada:  il servizio era effettuato da un “omnibus”, una  carrozza trainata da due cavalli. Nel 1893 entrava in funzione la linea ferroviaria che collegava Ozieri con i villaggi del Goceano. Lungo questa linea ferroviaria anche Buddusò aveva la sua stazione, sebbene così lontana dal centro che per raggiungerla a piedi si impiegava circa un’ora.
Ciò dimostra che nonostante fosse un villaggio situato all’estrema periferia della provincia di Sassari, al confine col Nuorese, la comunità buddusoina non era nè chiusa né isolata, bensì aperta, com’è dimostrato anche dai numerosi matrimoni celebrati tra abitanti del villaggio e individui provenienti da svariati centri della Sardegna e dal continente. Di questi si ricorda Ettore Biondetti nativo della Val Policella e padre del famoso corridore automobilistico Clemente, che sposò nel 1889 la buddusoina Fiorentina Dei Pedde.

L'economia

In questo secolo la quasi totalità delle famiglie era dedita all’allevamento del bestiame, in particolare di bovini. Dai documenti relativi alla lite tra Buddusò e Alà per il territorio denominato “Saltu ‘e Binza de Mattu” iniziata nel 1806, risulta che oltre ad allevare vacche, pecore, capre e maiali, si allevavano anche cavalli; un certo Gian Battista Nieddu ne possedeva un branco di 70-80.
Alberto Lamarmora, che visitò il villaggio nel 1823 scrive: “Quasi tutte le famiglie sono dedite alla pastorizia, in particolare all’allevamento dei bovini”.
L’Angius, che lo visitò dieci anni dopo, scrive che esistevano più di 200 tanche e che nel territorio pascolavano circa 6000 vacche, 7000 capre, 8200 pecore e 3000 maiali. I prodotti dell’allevamento che non venivano consumati in loco venivano venduti a Terranova, Sassari e Orosei: annualmente venivano vendute 300 cantare di formaggio bianco e affumicato. Da un censimento fatto dal Consiglio comunitativo nel 1832-33 risulta che nel villaggio esistevano 445 tra cavalli e cavalle, 234 buoi e 75 giumenti: un numero ragguardevole se si considera che in quel periodo il villaggio aveva circa 2000 abitanti.
Da una lettera del 1823, (oggi conservata tra le carte della Segreteria di Stato e di Guerra nell’Archivio di Stato di Cagliari), risulta che gli allevatori di maiali, assai numerosi nel paese, praticavano la transumanza verso le valli ghiandifere dei “Saltos de Josso”. I maiali erano di razza piccola, robusta e sana: un maiale, anche se nutrito abbondantemente, non superava i 180 chili.
Anche le pecore erano piccole, eccezionalmente raggiungevano il peso di 20 chili, ed era rara la pecora che rendesse un litro di latte; mediamente davano mezzo litro-tre quarti di latte, difficilmente producevano un chilo di lana. Nella prima metà dell’Ottocento, era raro trovare in un gregge dei capi dal vello bianco: si preferiva allevare pecore dal vello nero, perché la lana nera, destinata alla tessitura dell’orbace, nel ciclo della colorazione richiedeva minor lavoro. Ma quando sul mercato la lana bianca divenne più ricercata e meglio pagata, la pecora nera iniziò a scomparire. Dall’Angius sappiamo che le donne buddusoine erano molto brave nel tessere l’orbace e le tele. Nel 1833 nel villaggio erano presenti circa 400 telai: l’eccedenza del tessuto veniva venduta.
Al contrario, per gli allevamenti bovini, grazie all’intelligenza ed all’imprenditorialità di alcune famiglie di allevatori, tra i quali si ricordano i Puliga, i Tola e in particolare l’allevatore Pietro Paolo Ledda di grande competenza e sagacia, si riuscì a migliorare la razza importando tori dalla Svizzera e dall’Italia del Nord.
Nella sua relazione al Consiglio comunale Enrico Costa scriveva che nell’allevamento del bestiame (bovino) Buddusò era ritenuto forse, il primo nella provincia di Sassari, come attestano le medaglie d’oro vinte da Pietro Paolo Ledda in diverse mostre zootecniche.
Il latte prodotto negli allevamenti bovini, ovini e caprini veniva trasformato nelle “pinnetas” e nelle “labinnas”. Il procedimento usato per la caseificazione era ancora primordiale: i recipienti utilizzati per la raccolta, il riscaldamento e la lavorazione erano di legno oppure di sughero. In questi recipienti il latte veniva portato a temperatura immergendovi dei sassi rotondi riscaldati sino a diventare rossi. La temperatura e il caglio venivano misurati in base all’esperienza personale dell’allevatore.
Alla fine dell’Ottocento arrivano in Sardegna i primi imprenditori caseari. Nei Quaderni Bolotanesi, Italo Bussa afferma che il primo caseificio fu impiantato a Villanova nel 1897 ad opera di un certo Castelli proveniente da Roma: probabilmente lo stesso Aloisio Castelli nativo della capitale che nel 1904, all’età di 33 anni, sposò Antonina Ledda Puliga, di anni 18, figlia di Pietro Paolo Ledda.
Alla fine del secolo molti allevatori di bovini, allettati dai lauti guadagni che si ottenevano conferendo il latte ovino ai commercianti caseari, decisero di vendere le loro vacche ed acquistare pecore.
Anche l’agricoltura soffriva della stessa arretratezza. Alla base del suo sottosviluppo vi erano i mezzi che si utilizzavano. Per tutto l’Ottocento fu utilizzato l’aratro tradizionale, di legno con la punta di ferro a chiodo che scalfiva appena il terreno, senza penetrarvi a fondo. Non conoscendo l’erpice, le sementi venivano ricoperte con la zappa. In questo secolo i raccolti erano alla mercé del tempo: gelo e grandine durante l’inverno, piogge eccessive in primavera e lunghi mesi di siccità durante l’estate. Inoltre, in certi anni i raccolti erano alla mercé dei vastissimi sciami di cavallette.
Il grano e l’orzo venivano macinati con la macina girata da un asino. Questo tipo di macina era uguale alla mola asinaria che usavano gli antichi romani.
La produzione era scarsa: si seminava orzo, grano e lino, solo quel tanto che bastava per il consumo locale. Negli ultimi anni del secolo, afferma Enrico Costa, abbondavano i prodotti dell’orto, che avevano fama di essere eccellenti; se ne produceva una così grande quantità da rifornire anche i paesi vicini. Nella prima metà dell’Ottocento alcuni Buddusoini appresero l’arte di produrre il carbone. I carbonai toscani, finanziati da imprenditori piemontesi, iniziarono a diradare i boschi di Tandalò per produrre carbone, traversine per le ferrovie e legname per le miniere, servendosi di manodopera locale che per l’occasione si insediò in questa località.

L'Editto delle chiudende

Nella seconda metà del secolo l’Editto delle Chiudende (1820), l’eversione del feudalesimo (1836-39) e l’abolizione degli ademprivi (1863), sconvolsero il già povero mondo agro-pastorale, imprimendo una svolta negativa alla storia e alla società del centro: aumentò il già folto numero dei poveri e crebbero di conseguenza le schiere degli abigeatari, che per tutto l’Ottocento devastarono il territorio del villaggio.
L’Editto promulgato in Sardegna nel 1823 stabiliva che i proprietari potevano chiudere i terreni di loro proprietà. Nel villaggio già da diversi anni erano state chiuse diverse “tanche”, come risulta da una lettera di Sebastiano Sanciu, maggiore di giustizia del villaggio, che il 27 marzo del 1817 informava il feudatario che a causa dell’attività dei notabili del paese che giornalmente erigevano muri non solo sulle loro terre ma addirittura su quelle pubbliche, non era difficile che si verificassero dei tumulti: in seguito, infatti, furono demolite da un’insurrezione popolare. I soli che trassero beneficio dall’Editto furono i grandi possidenti, i benestanti ed i preti anch’essi benestanti, gli unici in grado di finanziare i lavori necessari per la chiusura delle “tanche”. Tutto questo avvenne anche a discapito dei poveri, poichè erano state chiuse anche le terre comuni, come le vidazzoni e i boschi, su cui questi ultimi godevano di una serie di diritti gratuiti, come, per esempio, la provvista della legna per l’inverno. Quando qualche sindaco presentava un esposto alla Reale Udienza denunciando gli abusi dei notabili, la maggior parte delle volte questi riuscivano a dimostrare che le terre erano di proprietà della loro famiglia da generazioni. Grazie alla grande disponibilità di denaro e alla prepotenza riuscivano ad ottenere e far legittimare come proprio anche ciò che non gli apparteneva. Fra le tante lettere di denuncia ed alcuni esposti presentati ai giudici della Reale Udienza di Cagliari ed all’intendente provinciale di Ozieri dai sindaci e dai Consigli comunitativi di Buddusò, durante gli anni dell’applicazione della Legge sulle Chiudende, si cita, principalmente delle usurpazioni perpetrate dal notabile del villaggio, Giovanni Semedei. Questi si avvaleva del sostegno dei noti banditi fratelli Fresu, e grazie alla paura che questi incutevano fra la gente del villaggio, continuava imperterrito a chiudere “tanche” senza timore di reazioni da parte dei diseredati del villaggio.
In una lettera del 1832 indirizzata all’intendente provinciale, un gruppo di appartenenti alla classe povera e diseredata del villaggio si lamentano della crudele avidità dei notabili, che oltre ad essersi appropriati dei terreni di uso comune, anche in stagioni in cui i raccolti scarseggiavano, se qualcuno dei poveri del villaggio si introduceva nelle “tanche” per raccogliere erbe commestibili per sfamarsi, veniva scacciato e minacciato di morte. Inoltre, i firmatari della lettera si lamentavano dei ministri locali che non pubblicavano i pregoni ed i regi editti, come ad esempio quello che ordinava che chiunque avesse chiuso delle tanche doveva tenere il bestiame chiuso al loro interno e lasciare libere le terre comunali a vantaggio di coloro che non avevano recintato delle tanche: ma i notabili disattendevano le ordinanze dei pregoni e dei regi editti, continuando a far pascolare il bestiame nelle terre comunali.
Il rancore e la disperazione dei poveri e dei diseredati di Buddusò si rispecchiano bene nei versi del poeta ozierese Gavino Achena contro le sciagurate conseguenze dell’Editto delle Chiudende e soprattutto dell’avidità dei possidenti: “Tancas serradas a muru / fattas a s’afferra afferra / si su chelu fit in terra / bo che lu serraizis puru”
.

Dei 21.000 ettari di terra di cui è composto il territorio del comune di Buddusò, 12.000 sono oggi proprietà privata e 9.000 sono pubblici. In fondo in fondo si potrebbe dire che al nostro centro non è andata poi così male: la maggior parte dei comuni della Sardegna non possiedono più di un solo ettaro di terre pubbliche.
Nell’Ottocento la vita economica e la sopravvivenza delle famiglie era legata alla terra a prescindere dal tipo di professione si volesse intraprendere: più terra si possedeva e più si era considerati ricchi. La stessa idea di ricchezza si basava sul numero di ettari di terra e sul numero di capi di bestiame posseduti. A Buddusò dopo l’applicazione della Legge sulle Chiudende, la distribuzione della proprietà della terra risultava fortemente sbilanciata, dei 12000 ettari di terre private, quasi la metà apparteneva a due famiglie, i Puliga ed i Ledda Campus; il resto era rimasto nelle mani delle famiglie che possedevano medie e piccole proprietà: i Semedei, i Satta Semedei, i Tola, Tola Murgia, i Mela Satta e tante altre. Una parte considerevole della popolazione non possedeva niente, era la classe dei diseredati, che riusciva a campare a stento.
Nel villaggio il potere era detenuto dalle famiglie dei grandi proprietari terrieri, i prinzipales, e dalla Chiesa. Spesso tra i notabili per affermare il proprio prestigio, onore e potere all’interno delle comunità nascevano screzi che non di rado sfociavano con il danneggiamento della proprietà: sgarretamento del bestiame e distruzione delle vigne; difficilmente venivano perpetrati omicidi.

Carestie e pestilenze

All’inizio del regno di Vittorio Emanuele I, 8 giugno 1802, la Sardegna, scrive Francesco Corridore, nella sua Storia documentata della popolazione di Sardegna (1902), fu colpita da una carestia dagli effetti funesti. A chi scrive risulta che il nostro centro fu tormentato da una terribile carestia. Nel 1803, lo si deduce dal numero dei decessi registrati in quell’anno nel libro dei defunti della parrocchia (Liber Mortuorum), i morti furono ben 115, di cui 26 maschi, 47 femmine e 42 minori d’età, tra i 2 mesi e gli 11 anni. Mediamente nei primi tre decenni dell’Ottocento venero registrati tra i 34-40 decessi e tra 60-65 battesimi all’anno.
Diverse carestie e pestilenze continuarono ad affliggere la popolazione nella prima metà dell’Ottocento. In particolare si ricorda la carestia del 1811-12 che colpì tutta l’isola e venne ricordata come “Sa famini de s’annu doxi”. Essa travagliò duramente il villaggio, causando numerosi decessi tra gli infanti ed i ragazzi. Dal registro dei defunti della parrocchia risulta che in quei due anni i decessi furono 159, dei quali ben 103 di ragazzi ed infanti.
Nel 1816 si registrò un’altra carestia alla quale si aggiunse una tremenda pestilenza che causò la morte di numerosi individui maschi anziani: su 71 morti 36 erano maschi, di cui 7 ottantenni e 19 settantenni, 9 avevano un’età tra i 50 ed i 65 anni, uno ne aveva 23 anni. Una curiosità: tra i 71 defunti, di 27 non si conoscevano i genitori.
Corridore registrava che nella seconda metà del secolo XIX la popolazione dell’isola aumentava notevolmente, l’incremento venne arrestato dal colera del 1854-55 che ne decimò la popolazione, in particolare quella del nord della Sardegna. A Buddusò il morbo si sviluppò in modo cruento nel mese di settembre. Nel liber mortuorum della parrocchia risulta che in questo anno sono stati registrati 214 decessi, di questi 169 nel mese di settembre.
Nella sua relazione Enrico Costa annotava che nel 1885 il paese fu colpito dal colera che causò la morte di 144 individui. Da una ricerca fatta da chi scrive, nel registro dei defunti del Comune, risultò che in quell’anno i morti furono 135, per la maggior parte infanti e ragazzi, che morirono nei mesi di agosto, settembre ed ottobre. In media ogni giorno veniva registrato un decesso. L’anno precedente  i defunti registrati furono 88, e nel 1886 furono 56.
In quegli anni la maggior parte degli abitanti del villaggio non osservava le più elementari regole igieniche: poca pulizia nelle strade e nelle case, promiscuità con gli animali che stazionavano dentro l’abitato, mancanza di una rete fognaria, scarsa igiene personale; inoltre l’approvvigionamento dell’acqua per uso domestico avveniva d’estate da pozzi stagnanti. Erano sicuramente queste le cause dell’elevata mortalità infantile. Enrico Costa scrive che la malattia predominante  nel villaggio era la dissenteria sanguigna. Fortunatamente nonostante la scarsa igiene, affermava, il numero dei nati superava annualmente di quasi il doppio il numero dei morti.
Al 31 dicembre del 1891, registra il Costa, la popolazione di Buddusò, compresi i Saltos de Josso era di 3547 individui, un terzo dei quali viveva nei Saltos.

L'Amministrazione e la delimitazione dei confini

Dopo la trasformazione del Regno di Sardegna in Regno d’Italia e con la definitiva abolizione dei diritti d’ademprivio il Comune viveva esclusivamente delle risorse che gli derivavano dall’affitto del suo patrimonio terriero. Da questi proventi doveva pagare gli stipendi dei dipendenti e versare le imposte allo Stato e alla Provincia.
Le Amministrazioni che si sono succedute nel tempo alla guida del Comune non hanno mai oberato gli abitanti di Buddusò con alcuna tassa, nemmeno con la più comune: il “focatico”. Anche per questo difficilmente chi amministrava riusciva a tenere il bilancio in parità: bastava una spesa imprevista per creare il vuoto nei capitoli del bilancio. Il Comune era sempre oberato di debiti, afferma Costa, causati dall’inerzia e dalla scarsa cura degli amministratori per la cosa pubblica e in parte, afferma Costa, dalla pigrizia del segretario comunale. A questi debiti accumulati in tanti anni di cattiva amministrazione si dovevano aggiungere gli interessi di mora per imposte non pagate al fisco: a tutti i solleciti di pagamento ed alle lettere ufficiali dell’Intendenza di Finanza, dell’Agenzia delle tasse e di altri uffici si preferiva non rispondere. Il ricevitore del registro nel biennio 1890-91, scrive Enrico Costa, sequestrò per debiti di imposte dirette e  penalità della manomorta, la somma di 10.610 lire. Il comune privato di una parte considerevole delle sue entrate, vide compromesso il proprio bilancio. A causa di questo dissesto finanziario alla fine del mese di dicembre 1891, il sindaco Pietro Paolo Ledda e tutti i consiglieri rassegnarono le dimissioni; dopo alcune settimane la prefettura di Sassari nominava Commissario prefettizio Enrico Costa, che dopo nove mesi di indefesso lavoro risanò il bilancio del Comune.
Nell’Ottocento gli amministratori del nostro centro furono costretti ad affrontare anche alcune cause civili, che riguardavano in particolare contestazioni sui confini territoriali del Comune con il Demanio dello Stato, con la comunità di Alà e con la comunità di Bitti. Queste contese, specie quelle con i due paesi vicini, furono abbastanza cruente causando la morte di numerosi abitanti. In quegli anni non esisteva un catasto, sicché i confini fra comunità limitrofe erano elastici, soggettivi, affidati alla memoria e alla tradizione orale: inoltre i pastori delle tre comunità pascolavano le loro greggi e le loro mandrie invadendo i terreni del comune vicino.
Le parti, non avendo a disposizione documenti che comprovassero che quei Saltos appartenevano ad una oppure all’altra comunità, si limitavano a dichiarare che il possesso di quei territori era loro da “tempo immemorabile”, e che questo possesso “non era stato interrotto da atti molesti e turbativi da individui della comunità avversa”.  
Nel 1806 il sindaco e censore Salvatore Satta convocava il Consiglio comunitativo del villaggio composto dai consiglieri Sisinnio Fundoni, Giovanni Maria Manca, Giuseppe Ignazio Fundoni, Tomaso Porcu Altana e Sisinnio Brundu; alla riunione intervennero anche il maggiore di giustizia Tottoi Canu, il luogotenente di giustizia Raimondo Canu e sei probi uomini: il cavalier Giovannico Armina Satta, il cavalier Giorgio Puliga, Gavino Deledda, il dottore Sebastiano Sanciu, Angelo Maria Pirotti e Giovanni Murgia Satta. Il sindaco sottolineò che da tempi immemorabili il villaggio possedeva il Saltu de Binza de Mattu, che comprendeva le località di su Niberu, Bacchile Mannu, Badde ‘e Suerzu, s’Appara, sos Settiles, Janna Birde, sa Figughia, s’Arrocu e diverse altre località situate lungo il fiume s’Elema, al confine con il comune di Monti. In questi territori i buddusoini allevavano bestiame di ogni specie e seminavano granaglie d’ogni tipo. Ma da diversi anni, continuava il sindaco, gli abitanti di Alà tentavano e pretendevano di seminarvi granaglie, costruirvi recinti per gli animali e capanne per le persone. Per evitare di ricorrere ad atti violenti –dichiarava il Sindaco- era giusto rivolgersi ad un tribunale competente che salvaguardasse gli interessi dei buddusoini. All’unanimità il Consiglio decideva di nominare il causidico Giorgio Podda a rappresentare la comunità di Buddusò presso il tribunale competente di Cagliari.
Il 22 agosto 1806 la Reale Cancelleria, visti gli atti depositati dal causidico Podda, nominava commissario il notaio Giovanni Serra, ufficiale della Curia di Bono, incaricandolo di recarsi al Villaggio di Monti per interrogare i testimoni indicati dal rappresentante della comunità buddusoina, tutti di Monti. Essi dichiararono che, avendo pascolato negli anni il loro bestiame lungo il confine del Su Saltu ‘e Binza de Mattu, erano soliti vedere i buddusoini Giovanni e Giuseppe Nieddu, figli di Gian Battista Nieddu, e i loro servi condurvi le loro mandrie di vacche, capre e porci. Inoltre essi vi tenevano, senza alcuna custodia particolare, un branco di 70-80 cavalli rudi che una volta l’anno, nei mesi di aprile e maggio, venivano radunati in Su Bacchile Mannu ed in s’Orulis per essere marchiati, e tosati della coda e per catturare i puledri da domare. I testi, inoltre, affermarono che oltre ai Nieddu ed ai loro servi in quei territori dimoravano stabilmente, insieme alle loro mandrie, diversi cittadini di Buddusò, tra i quali Giovanni Addes Pudajolu e suo fratello Salvatore, Bacchisio Bazzu, Gavino e Giovanni Maria Vargiu, Francesco Murrighile e Sisinnio Beccu, Giovanni Orgolesu, Merchiorre Unida, i frattelli Satta e Sebastiano Dettori coi suoi figli, mentre nel Saltu ‘e Cantoros de Uda dimoravano stabilmente  i buddusoini mastru Paulu Biancu, Giuseppe Mela, Luca Lanzu e Giovanni Carta Mannu.
Il Reggente la Reale Cancelleria il 16 ottobre 1806 spediva al causidico Giorgio Podda, procuratore della comunità di Buddusò le Salvaguardie Reali Manutenzionali con le quali si certificava che il comune di Buddusò era proprietario dei sunnominati territori, dichiarando che sinchè non fosse stato dimostrato il contrario nessuno doveva ostacolarne il pacifico possesso. Chiunque avesse contravvenuto a quest’ordine sarebbe stato punito con un’ammenda di 500 scudi.
Ad Alà ricevuta copia delle Salvaguardie, il 28 settembre 1806, davanti al notaio Gavino Ledda Farina della Curia di Ozieri ed all’avvocato don Gavino Falche delegato consolare, si riuniva la Giunta comunitativa del villaggio, composta dal sindaco Giò Maria Ghisu Soggia e dai consiglieri Arcangelo Scanu e Giò Agostino Scanu, presenti il maggiore di giustizia Antonio Soggia e, trattandosi di un problema molto importante per la comunità, numerosi cittadini di Alà.
Il sindaco esordiva affermando che da diverso tempo individui del villaggio di Buddusò stavano occupando prepotentemente non solo i Saltos ‘e Binza de Mattu e Cantaros de Uda, ma anche i territori di Olevà, Urrà, Piras e tutto il monte chiamato Osinava, tutti appartenenti alla comunità di Alà. I presenti, all’unanimità deliberavano di chiamare in causa la comunità di Buddusò e ne affidarono la discussione davanti alla Reale Cancelleria al causidico Francesco Giuseppe Garau, priore della comunità alaese. Studiate le carte e sentite le testimonianze di diversi alaesi, con nota del 16 settembre 1807 questi presentava ricorso alla Reale Cancelleria, dichiarando che le pretese avanzate dalla comunità buddusoina riguardo il Saltu ‘e Binza de Mattu non erano credibili, per cui venivano rigettate in quanto il predetto salto era sempre appartenuto, a memoria d’uomo, alla comunità di Alà. Garau continua affermando che alcuni abitanti di Buddusò con prepotenza, avevano cercato di impossessarsene,  compiendo numerosi delitti. Al riguardo ricordava diversi omicidi compiuti in quei territori da individui buddusoini: Bacchisio Bazzu insieme ai figli uccisero Sebastiano Porcheddu, i fratelli Bazzu ammazzarono Antonio Muzzittu, Giovanni Fresi assassinò Giovanni Nieddu, i fratelli Carta trucidarono Fedele Muzzittu e Salvatore Nieddu. Oltre a questi omicidi i buddusoini si macchiarono di numerosi altri delitti contro diversi pastori alaesi, tanto da costringerli a tenersi alla larga dai territori del “Su Saltu ‘e Binza de Mattu”. Inoltre, continuava il causidico Garau, per il fatto che il parroco di Buddusò era anche parroco di Alà ed i due territori formavano una sola parrocchia e venivano versate le decime a questo parroco, i buddusoini si erano convinti di aver un diritto sulle terre di Alà.
Dopo cinque anni, viste le numerose testimonianze di ambedue le parti, il 17 ottobre 1811 il Reggente la Reale Cancelleria decideva di non rinnovare alla comunità di Buddusò le Salvaguardie Reali Manutenzionali, consigliando alle  parti di rivolgersi alla Regia Delegazione, che era l’organo preposto per risolvere i problemi di confine tra comunità limitrofe.
La controversia si risolse soltanto nel 1848, con l’imposizione alle due comunità degli attuali confini. Così il 23 marzo di quell’anno ebbe inizio la delimitazione dei confini tra il territorio Comunale di Buddusò e quello dei villaggi confinanti. Dopo una settimana di lavoro venivano definitivamente stabiliti i limiti territoriali del Comune con quelli dei villaggi circonvicini. La commissione era formata dai rappresentanti e periti delle comunità limitrofe e presieduta dal delegato del governo, avvocato Salvatore Ruiu, presenti l’ingegnere Dionigi Nigro con l’aiutante Pasquale Cugia.
Ma la delimitazione che riguardava i confini tra la comunità di Buddusò e Bitti fu contestata dall’intera popolazione buddusoina, in particolare dai pastori che pascolavano annualmente le loro greggi e le mandrie nella regione denominata dai bittesi “Su Saltu ‘e s’Abbarru” e dai buddusoini “Su Saltu ‘e Barranu”. Gli anziani del paese sostengono che alcuni individui che amministravano il nostro villaggio in quegli anni fossero collusi con gli amministratori di Bitti. Nell’Archivio di Stato di Cagliari fra i documenti delle cause civili non esiste la documentazione inerente una causa civile  per contestazione territoriale fra le due comunità. Al riguardo, l’unico documento trovato da chi scrive, è una sentenza del tribunale di Sassari del 1860, che riguarda un fatto avvenuto nel 1859 in “Su Saltu ‘e s’Abbarru” tra una squadra di barracelli di Bitti e alcuni pastori di Buddusò. I fatti: Saba Giommaria, Saba Vittorio, Saba Antonio, Saba Mimmiu e Saba Baingio tutti di Buddusò vennero accusati di ribellione alla giustizia per avere il 25 aprile del 1859, in località denominata “Su Saltu ‘e s’Abbarru”, territorio in contestazione tra comuni di Bitti e Buddusò, fatto formale resistenza, armi alla mano, ai barracelli di Bitti che avevano “tenturato” il bestiame dei Saba perché danneggiava i seminati di Bitti. Mimmiu Saba sparò un colpo di fucile contro il tenente dei barraccelli, certo Giorgio Carta Filippi, che fortunatamente rimase illeso, perché la palla forò soltanto il suo cappotto. Il giudice dichiarò gli imputati non colpevoli.
Prima della delimitazione dei confini dei territori dei comuni di Bitti e Buddusò i pastori delle due comunità pascolavano promiscuamente e pacificamente, anche perchè tra il marchesato di Orani, a cui apparteneva Bitti, e il ducato del Monte Acuto, non esisteva un confine preciso e soprattutto delimitato con evidenza. Una volta segnati i confini, invece i pastori buddusoini si videro privati di una consistente parte del territorio in cui da tempi immemorabili pascolavano liberamente le loro greggi e le mandrie senza essere disturbati. La reazione di questi pastori, a detta degli stessi anziani del paese, spesse volte fu violenta, e altre volte, addirittura quando nasceva qualche contrasto più aspro, sfociava in un delitto. Di delitti ne furono commessi tanti, tutti perpetrati contro pastori di Bitti, ritenuti “invasori” dei terreni tradizionalmente buddusoini.
La tradizione ha tramandato anche memoria di una terzina e due quartine di alcune poesie composte in quegli anni da qualche  versificatore di Bitti:

Buddusò mischinu sese
Dae su saltu de Abarru istache attesu
Mira chi dae oje est ittichesu.

Dae sas tancas ‘e s’Abbarru passa a bolu
E ti chircas allocu in atterue
Poberu Uddusò mischinu sese
Cantu n’at causatu s’Aschiolu”.

“S’Aschiolu” era Luigi Bandinu Satta, Asessore del Comune di Bitti nato nel 1830 e morto nel 1881

“Bellesa cantu b’at in s’Abba Cana
Si cheres ti la miras dae attesu
Non bi colas chin baccas ne chin amas
Rispettalu che saltu ittichesu”.

Fra i tanti fatti di sangue avvenuti in quegli anni tra buddusoini e bittesi ho un ricordo personale dell’episodio che mi fu raccontato da Giovanni Devaddis e confermato da Mimmiu Bacciu. Presso la località denominata Solle, dove in passato aveva dimorato il poeta pattadese padre Luca Cubeddu, soprannominato appunto padre Solle, due pastori, uno di Bitti e l’altro di Buddusò, erano venuti alle mani. Nelle vicinanze si trovavano i buddusoini Chirigu Arzu e Peppantoni Gallone che, sentite le grida d’aiuto del loro compaesano, intervennero immediatamente in suo soccorso. Il giovanissimo Chirigu Arzu, raccolta una pietra, la lanciò con forza e precisione contro il bittese, colpendolo sulla bocca e stordendolo: immediatamente Peppantoni Gallone lo colpì con lo stocco uccidendolo. Poco dopo scappò in America, mentre Vargiu si diede alla macchia diventando bandito (per legge): fu ucciso nel 1892 nella cantoniera di sos Vaccos da un carabiniere.
Nel 1859 il Demanio intentò una lite contro il Comune di Buddusò accampando diritti su diversi boschi situati nelle regioni di su Fossu Malu, sa Matta, Cantaros, sa Conchedda, Maria Tingia, Urrà Olevà Padru, Monte Nieddu e Biasi. Il Demanio sosteneva che quei territori ricoperti di boschi, già di proprietà del feudatario, furono ceduti al Demanio in cambio di un cespite annuo di lire 752.800; a sostegno citava la legge n. 26 del 1839, che proclamava demaniali tutti i boschi e le selve della Sardegna.
Il Comune obiettava che quei terreni erano di proprietà comunale da tempi immemorabili.
Dopo 32 anni di controversie giudiziarie e amministrative nel 1891 si venne ad una transazione: il Demanio rinunciava a qualunque pretesa di possesso sugli ex territori  ademprivili, purché il Comune si accollasse le spese processuali.

Matrimonio e convivenza

Nell’Ottocento furono celebrati a Buddusò 1703 matrimoni. Molti di questi venivano officiati in punto di morte: si trattava di coppie che avevano coabitato per anni, diverse delle quali consacrarono l’unione quando uno dei conviventi era moribondo. Ciò sta a dimostrare che le coppie che decidevano di convivere non lo facevano con leggerezza. Esse erano consapevoli di formare una nuova famiglia con il consenso delle rispettive famiglie e della stessa comunità. Al riguardo Enrico Costa scriveva che a Buddusò lo scarso numero di matrimoni era da attribuirsi al diffuso costume della coabitazione, consuetudine di lunga tradizione nel nostro centro. Si ricorreva allo Stato civile comunale e alla Chiesa, continua Costa, quando si avevano tre, quattro ed anche sei figli, allo stesso modo era abbastanza comune che madre e figlia si sposassero nello stesso anno.
Il vescovo della diocesi di Ozieri, Corrias nel 1879, in una sua relazione, denunciava che due piaghe affliggevano la diocesi: il furto e la coabitazione. Quest’ultima affermava, era particolarmente praticata a Buddusò, Bono, Nughedu e Monti. Oltre che a Buddusò centro, la coabitazione era  particolarmente diffusa nelle frazioni, i così detti Saltos de Josso. Appena insediato e saputo dello stato in cui versavano queste popolazioni, monsignor Corrias decise di recarvisi in visita pastorale: fu il primo vescovo, a memoria d’uomo, a visitare quei territori isolati e poco popolati. Sebbene il viaggio fosse alquanto disagevole, il vescovo vi si recò due volte, la prima nel 1873, concedendo numerose licenze matrimoniali e dispensando le coppie dal sottostare alle solite penitenze; allo stesso modo, a tutte le coppie che regolarizzavano la loro unione col matrimonio religioso, veniva legittimata la prole nata durante la convivenza.
Nel 1892, nella sua Relazione al Consiglio comunale di Buddusò, Enrico Costa scriveva che gli abitanti del paese erano svelti, intelligenti, molto furbi, tendenti alla diffidenza e poco lavoratori. Fra le passioni predominava l’invidia per l’altrui benessere ed il poco rispetto per l’altrui proprietà.
Io aggiungo l’eccessiva licenza dei costumi, quasi una “legge” formatasi nell’isolamento e nell’indifferenza dello Stato e non di rado anche della Chiesa.
Nei registri dei battesimi della parrocchia, e dal 1863 nei registri delle nascite dello Stato civile, viene denunciata annualmente la nascita, mediamente, di sei-sette bambini di cui si ignorano i genitori e nei registri dei defunti viene denunciata la morte di sette, otto, qualche anno anche 27 (1816), 13 (1815) defunti di cui si ignorano i genitori.  A questo si aggiunga lo scarso rispetto e la pessima gestione della cosa pubblica. Enrico Costa racconta che nel 1872 un sindaco che nominò se stesso scrivano-copista, assegnandosi uno stipendio, e un consigliere nominò se stesso membro della commissione del dazio, tassando se stesso, perché proprietario di una macelleria e di una rivendita di liquori.
Naturalmente, ricorda lo storico, non mancavano le persone civili, distinte ed educate, forse più numerose che in altri paesi della Sardegna. Di queste ricordo con orgoglio due patrioti che lottarono per l’unificazione dell’Italia, un magistrato senatore del Regno d’Italia, un vescovo, un sacerdote, un militare e due poeti. Antonio Pala nato a Buddusò il 25 settembre 1821 da Antonio e Antonia Floris. Frequentò il Regio ginnasio ed il primo anno della facoltà di Filosofia dell’Università di Sassari, che appena diciannovenne abbandonò per arruolarsi nel Corpo dei Regi Preposti (l’attuale Guardia di finanza). Il 23 marzo del 1848 Pala abbandonò la propria Brigata per partire volontario per partecipare alla prima guerra per l’indipendenza. Si distinse nei campi di battaglia del Lombardo-Veneto, in particolare a Montebello, dove si meritò sul campo i gradi di sottotenente del 37° reggimento di linea dell’Esercito sardo, e subito dopo nella battaglia di Curtatone e Montanara. Nella primavera del 1849 rientrò in Sardegna ottenendo la reintegrazione nel corpo dei preposti. Dal 1871 col grado di tenente di 2° classe era al comando della Luogotenenza di Sassari, dove il 21 gennaio del 1876, non ancora cinquantenne, morì colpito da improvviso malore. 
(Le notizie sono tratte dal saggio dedicato ad Antonio Pala dal Capitano Gerardo Severino, direttore del museo storico della Guardia di Finanza).
L’altro patriota buddusoino di cui ci dà notizie don Demelas (Babbai ‘e Mela) è Salvatore Ledda Bacciu, soldato del 10° reggimento di fanteria dell’Esercito sardo. Partecipò alla guerra di Crimea (1855) ed alle guerre per l’indipendenza, guadagnandosi due medaglie d’argento al valore militare e due medaglie commemorative. Una medaglia d’argento gli venne conferita perché nel passaggio della Sesia –21 maggio 1859- rimase in prima linea nonostante fosse stato ferito; l’altra gli fu conferita dopo la battaglia di Castelfidardo (22 settembre 1860). Una delle medaglie commemorative gli fu conferita per aver partecipato alla Guerra di Crimea nel 1854-56, l’altra, il 30 dicembre 1860, per aver partecipato alla campagna d’Italia del 1859.
Un altro importante personaggio buddusoino vissuto nell’Ottocento fu il senatore del Regno d’Italia, Agostino Farina. Nacque a Buddusò il 13 ottobre del 1817 da Salvatore e Vittoria Cano. Frequentò l’Università di Sassari, dove conseguì la laurea in Giurisprudenza. Compiuto il tirocinio forense, lavorò da volontario nell’ufficio dell’Avvocato fiscale generale della Sardegna. Intraprese la carriera nella magistratura inquirente raggiungendo il grado di Procuratore generale di Corte d’Appello. Ebbe ufficio a Casale, Messina, Parma, Ancona e Milano. Fu nominato senatore del Regno d’Italia il 26 novembre 1884. Morì a Varazze il 9 gennaio 1896.
Altri figli illustri a cui Buddusò ha dato i natali sono: il vescovo di Bisarcio Filippo Bacciu, il canonico Gavino Dettori, che amministrò la nostra parrocchia dal 1859 al 1882 e, dal 1883 al 1894, vincitore di concorso, fece parte del gruppo ristretto di canonici del capitolo di Bisarcio. Altro eminente personaggio fu il generale Francesco Satta Semedei, professore emerito dell’Accademia Militare di Modena. Fra gli uomini di cultura si ricordano i poeti Proto Stara, citato da Salvatore Tola nell’opera “Canzoni popolari di Sardegna” in dialetto sardo centrale logudorese di Spano (la sua opera letteraria andata persa); Bardilio Dettori, fratello del canonico Gavino, che fu per diversi anni segretario del Comune di Buddusò. Il Centro Culturale di Buddusò ne pubblicò una raccolta di poesie, curata da chi scrive, ma la maggior parte della sua produzione poetica è andata perduta.
Tutti i predetti personaggi frequentarono il primo ciclo della scuola elementare a Buddusò. Sulla scuola le prime notizie ci giungono dall’Angius che scriveva che a Buddusò vi fosse una scuola normale frequentata da 40 fanciulli. Enrico Costa annotava che in quel periodo a Buddusò operavano tre insegnanti: la maestra Cotogno, il maestro Giordi e il maestro Tucconi. I ragazzi potevano frequentare le prime tre classi della scuola elementare. In quell’anno (1892) la popolazione scolastica obbligata alla frequenza era di 224 alunni, 110 maschi e 114 femmine, ma gli iscritti erano solo 117. La scuola era vista più come un lusso che come una necessità, perciò era frequentata dai figli dei grandi e medi proprietari terrieri e dai figli dei benestanti. Per continuare gli studi sino al ginnasio bisognava frequentare le scuole della vicina città di Ozieri. Per intraprendere gli studi universitari il centro più vicino era Sassari, qualcuno si scriveva all’Università di Cagliari, si ricorda: Monsignor Filippo Bacciu e il prefetto Giovanni Fumu, frequentarono l’Università di Sassari; il generale Francesco Satta Semedei e il fratello Antonio Giuseppe dopo aver frequentato l’Istituto tecnico, fisico, matematico di Firenze, il primo si iscrisse all’Accademia Militare di Modena, il secondo alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari. Chi decideva di indossare l’abito sacerdotale, dopo aver frequentato il Regio ginnasio di Ozieri,  sceglieva di frequentare il seminario tridentino nella città di Sassari.   

Tratto da – Almanacco Gallurese – Articolo di Tomaso Tuccone

Pittoresco ed attivo centro del Monte Acuto, nella Sardegna Nord Orientale, sorge sull’ altipiano omonimo a m. 690 s.l.m., i suoi territori confinano con i comuni di Alà dei Sardi, Bitti, Osidda, Pattada, Oschiri e Berchidda.
Occupa una superficie di ha. 21.000 di cui ha. 9.000 di proprietà del Comune. Il clima è sub-umido. L’estensione in altitudine di questo tipo di clima và in genere da 500 a 1.100 metri; il grado di umidità è elevato, ma rimane sempre marcata la siccità dell’estate. Così il leccio, la sughera e la quercia trovano le condizioni climatiche più favorevoli. Le piogge oscillano tra gli 800 ed i 1.200 mm. annui.
Il terreno è prevalentemente sabbioso, a grana grossa, di natura silicea, provvisto di poca argilla. E’ a reazione acida. Dal punto di vista orografico il territorio di Buddusò è piuttosto irregolare, da pianeggiante con dolci colline a montagnoso ed accidentato è solcato da piccole valli e canali. La parte del territorio a Nord del paese “Su Monte ‘e S’ Ena”, si presenta accidentata nel rilievo, aspra, spoglia di vegetazione e priva di soprassuolo boschivo, esclusa la zona di “Sa Conchedda e quella interessata ai lavori di forestazione. Questa zona è ubicata tra gli 800 ed i 1.000 m. s.l.m. I rilievi più importanti sono Punta Sa Jone (1.003), Punta Sa Lima (966). Da qui nasce un affluente del “Riu Mannu” che alimenta il Fiume Coghinas.
Nel perimetro forestale di “Sa Conchedda” sono state introdotte le conifere, esclusa la parte periferica, dove è ancora intatta la vegetazione autoctona, sughere, lecci, corbezzoli, erica ed altre specie della tipica macchia mediterranea. Le loro radici hanno impedito il dilavamento delle coste montuose sebbene i terreni siano stati percorsi da diversi incendi, mantenendo così quello strato di terra fertile che ha permesso al bosco di essere sempre vigoroso. La rimanente parte del “Monte ‘e S’Ena” è spoglia, sprovvista dello stratto arboreo, mentre è presente la vegetazione arbustiva. Questa porzione del territorio, un tempo boscata, alla fine dell’ Ottocento e nella prima metà del Novecento è stata soggetta a tagli selvaggi di piante e percorsa da numerosi incendi. Il territorio del perimetro forestale di “Sa Conchedda” è un vero e proprio paradiso terrestre: immensi spazi di zone aspre e selvagge dove oggi regna il cinghiale e si possono ammirare frotte di mufloni e qualche cervo.
Tutta la regione è ricca di acque sorgive: molte fontane dissetano gli escursionisti ed i vari visitatori. Le acque trasportate dai torrenti confluiscono in varie dighe artificiali che formano laghetti in cui in certi periodi dell’ anno nuotano tranquilli i germani reali. La porzione sita sull’altipiano è prevalentemente pianeggiante e ricoperta da boschi di sughera e leccio, cambia ad Est dove si eleva la punta di Sa Pianedda (985 m.), Punta Ololviga (892 m.) e Chentu Porcos (829 m.). Qui nasce il maggior fiume della Sardegna il Tirso, alimentato dalle sorgenti di Orunita, Musculajos ed Isteddì. Altro fiume che nasce fra questi monti è il Dore che rifornito dalle acque delle sorgenti di Su Pisu e S’Olostris alimenta la diga di Posada. Presso Chentu Porcos e Loelle si trovano le sorgenti del fiume S’Elke, che con le sue acque alimenta il fiume Coghinas. Questo territorio è solcato da canali e piccole valli, ricoperte di rigoglioso boschi di sughera e leccio, tra cui Canale Lupu e Sos Canales.
A Sud-Ovest il rilievo di “Sa Serra m. 830” divide, la piana di “Padru Oes” dalle fertili terre di “Sa Zura e Sas Radinas”. La regione è ricoperta da secolari piante di quercia, qualche pianta di leccio e rare piante di sughera. Nella regione di “Sa Zura” in località denominata “S’Isja” nel Miocene (50- 60 milioni di anni fa) sorgeva un lago. Di questo lago, oggi, rimangono le rocce formatesi con i suoi sedimenti: infatti è l’unica zona del territorio dove si trova il calcare. Questa roccia affiora dal terreno ove era situato il lago. Parte dei muri delle proprietà assegnate, negli anni 50, dall’Etfas sono costruiti con questo tipo di roccia. Il paesaggio è caratterizzato da stupendi boschi contornati da imponenti rilievi granitici. Ciò che maggiormente contraddistingue questi rilievi sono le cavità formatesi durante le eruzioni vulcaniche ed in seguito a fenomeni di erosione: queste cavità vengono comunemente chiamate “tafoni”, in sardo “concheddas”.
Tra i blocchi di granito, si aprono talvolta delle cavità tanto grandi che l’uomo le ha potute sfruttare e riconvertire in abitazione o ricovero per animali. I nuragici utilizzavano questi tafoni come sepolture. Molte volte assumono delle forme strane e bizzarre che con un pò di immaginazione possiamo somigliare a figure di animali ed altre cose.